
Spesso in una sessione di coaching può capitare che il coachee abbia necessità di sviluppare determinate conoscenze su alcune tematiche che il coach presidia notevolmente in termini di contenuti, come ad esempio dare un feedback, gestire il tempo, organizzare riunioni efficaci ect. in questo caso il coach a mio avviso può trasmettere dei contenuti al coachee durante la sessione come se fosse un consulente/formatore, ma deve a mio avviso esplicitare al coachee che in quel momento non sta esercitando il ruolo di coach ma sta facendo altro (formatore / consulente appunto). Tale esplicitazione risulta a mio avviso importante in quanto in questo modo le conversazioni di coaching restano ancorate alla premessa che è il coachee ha già tutte le risorse per raggiungere i propri obiettivi evitando inoltre il pericolo di creare una sorta di dipendenza del coachee nei confronti del coach che potrebbe inficiare il grado di consapevolezza e responsabilità del coachee in merito ai suoi obiettivi e attività.
Cosa ne pensate? Vi capita mai di indossare il ruolo di formatore / consulente in un percorso di coaching e cosa fate in questo caso?
Personalmente uso questo processo quando, durante una sessione di coaching, emerge l'esigenza di spostarsi verso la formazione/consulenza:
quando emerge una richiesta di “istruzioni” del tipo “dimmi cosa fare” oppure "dammi i concetti teorici che mi servono per risolvere la mia situazione"
ribalto inizialmente la domanda per favorire la riflessione: “Tu cosa faresti?”, “In passato cosa hai fatto e come ha funzionato?”, “Ti è mai successo di risolvere situazioni simili? Cosa hai fatto in quei casi?”
solo se il coachee non trova una soluzione soddisfacente, è possibile dirgli che mi sto togliendo momentaneamente il “cappello” di coach per raccontargli il mio punto di vista
dò al coachee le informazioni o i suggerimenti richiesti presentandoli come un’integrazione alle sue idee espresse nel punto 2
alla fine rientro nel processo di coaching.
Condivido il processo illustrato da Luigi. Ho lavorato tanto sulla competenza che sostiene tale processo: la Comunicazione Diretta. Riuscivo a formulare delle domande ma in caso di insoddisfazione del coachee rispetto ai risultati ottenuti, non riuscivo ad esplicitare il mio punto di vista perché mi sembrava di viziare il processo. Ho imparato che, invece, la partnership tra il Coach e Coachee non è violata se esprimo chiaramente che quello è semplicemente ciò che io penso, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il Coachee. Questo permette anche di non lasciare dei non detti nella relazione di Coaching.
Condivido appieno. Anche io utilizzo la comunicazione diretta in due casi:
1. aggiungere al processo di coaching informazioni e/o dati oggettivi/teorici che allargano il bacino di elementi a disposizione del coachee per orientare i suoi comportamenti. Insomma, quando indosso quello che DeBono chiama "il cappello bianco".
2. dare un feedback su un comportamento osservato. In questo caso uso la formula del feedback fenomenologico ("ho visto che...questo mi fa immaginare che...").
In ogni caso per sapere se sto facendo "bene" mi chiedo sempre qual è l'obiettivo del mio intervento e spesso lo esplicito al coachee. Questo mi aiuta a non perdere focus sulla centralità del coachee.
ottimi spunti